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TECI: Vivere le emozioni non ricordarle

TECI: Vivere le emozioni non ricordarle

Lui si chiama Michele, ha 74 anni e da 7 è affetto da malattia di Parkinson. La richiesta di aiuto mi è giunta da parte della figlia. Mi racconta che il padre presenta un notevole peggioramento non tanto dal punto di vista motorio ma più che altro da un punto di vista dello stato psicologico. La figlia mi spiega che Michele è caduto in uno stato molto forte di depressione, non accetta il peggioramento della sua malattia, trascorre le sue giornate a casa senza più fare le sedute di fisioterapia consigliate dallo fisiatra, passa da una sedia ad un’altra e dal divano alla poltrona. Sta quasi sempre in pigiama, non si sbarba a spesso non si lava. Non esce da casa perché ha paura e vergogna di cadere e quindi non svolge più tutti quegli impegni quotidiani che prima faceva senza alcun problema, aggravando di queste incombenze la moglie oppure i figli.

Il signor Michele è un pensionato delle Ferrovie della Calabro Lucana, faceva l’autista degli autobus extraurbani. Un uomo tutto famiglia e lavoro, senza hobby e nemmeno tanto dedito ai divertimenti. Dico alla figlia che doveva informare suo padre della mia visita e cercare di spiegarne anche i motivi. Cosa di certo non facile per un uomo che non voleva fare più fisioterapia e che si è chiuso in se stesso. Come fargli accettare la mia presenza? Quando incontro il signor Michele mi trovo di fronte un uomo di media statura, fisicamente forte e sano, ma enormemente impaurito, confuso. Le mani gli tremano, le caviglie dei piedi sono gonfie, è un po’ ingobbito una postura che si nota anche se mi accoglie e mi saluta dalla poltrona. Ci salutiamo. “Mi chiamo Elena” gli dico. “Piacere Michele” mi risponde evitando di guardarmi. Mi dà la mano, tremante, ed i suoi movimenti sono molto rallentati. Il suo viso è privo di espressioni (faccia amimica). Dalla sua voce mi rendo conto che il tono sta diminuendo e che fa fatica a pronunciare le poche parole che mi ha rivolto. Chiacchierando vengo a conoscenza che ha un debole per la musica napoletana che amava cantare mentre guidava gli autobus e che comunque era un vero e proprio chiacchierone. Il primo incontro con un paziente è molto importante per essere accettata. Chiedo di essere lasciata da sola per ascoltarlo parlare. Con Michele non c’è voluto molto per capire che quella sua chiusura era dovuta alla paura, alla grande paura che aveva nei confronti di una malattia progressiva che lo avrebbe portato verso l’immobilizzazione totale, costretto in un corpo “gabbia” che non rispondeva più a quello che la mente gli ordinava di fare. Inoltre Michele percepiva che anche qualcosa nella sua mente non stava più funzionando. Dimenticava le cose, tutto quello che per lui era abitudine si stava trasformando piano piano in una situazione invivibile che non voleva condividere con nessuno, nemmeno con la moglie. Aveva tanta paura. Lui, un uomo sempre allegro, che cercava di risolvere ogni problema, che non sentiva su di sé alcun limite nel fare, che trovava sempre mille strategie pur di risolvere un problema, doveva invece sottostare ad una malattia che non gli dava scampo. La prima sensazione che ho è quella di una forte limitazione unita ad un estremo senso di sfiducia ed alla incapacità di riuscire a tenere le distanze dalla malattia.

Spiego a Michele che la terapia corporea che utilizzo mette insieme cornici concettuali che provengono da diverse discipline scientifiche che mi hanno dato la possibilità di mettere insieme una teoria ed una tecnica che danno ai pazienti che si avvicinano ad esse la possibilità di esplorare e potenziare quello che il corpo riesce ancora a creare. Spiego che non si tratta di una fisioterapia passiva ma di una terapia corporea che lascia al corpo la libertà di esprimere quello che è in grado ancora di fare, andando a volte anche oltre ogni immaginabile limite. Spiego anche che grazie alla presenza della musica si riesce a potenziare l’intervento terapeutico perché sono stimolate anche esperienze emotive che spesso sono molto motivanti per il paziente perché avvicinano ad una conoscenza sempre più profonda di se stessi e di quelle che sono le spinte che lo aiutano ad andare avanti. Dico che con le terapie corporee si lavora in una dimensione globale, nell’ambito del sensoriale, del propriocettivo, del cognitivo, del movimento corporeo, tutte cose che, messe insieme, danno alla persona la possibilità di migliorare il rapporto con sé stessi, con la famiglia, con il mondo che lo circonda. Con molto timore dico che a danza potrebbe diventare uno strumento privilegiato per prendermi cura della sua persona in maniera totale.

Mentre parlo con Michele mi rendo conto che spiegare quello che sarà l’intervento terapeutico che andrò a fare è per me una condizione molto diversa e di certo meno frustrane rispetto a quella che vivo con i pazienti con malattia di Alzheimer. Con Michele mi rendo conto che il percorso è condiviso, non lo calo dall’alto, è una strada comune sulla quale potrebbe nascere anche il potenziale estetico e creativo del corpo del paziente.

Michele vuole provare. Si fida.

Il malato di Parkinson soffre di una disorganizzazione progressiva del movimento che si manifesta in tremore, rigidità, atrofia nel cammino, lentezza nei movimenti, difficoltà nella gestione dell’equilibrio personale e TECI restituisce al malato di Parkinson un maggiore contatto con il proprio corpo, aumentando la fluidità dei gesti. Ogni attività è studiata per creare movimenti coordinati tra gli arti superiori e quelli inferiori allo scopo di favorire sequenze in cui il corpo potesse muoversi come una unità corporea e non come elementi spezzettati. Entra così in gioco la personalità di Michele nella sua interezza, una personalità fatta di movimenti, emozioni vissute, desideri e questo permetteva l’integrazione cognitiva, emozionale, psico-fisica, sociale, familiare.

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