Sembra che all’età di 71 anni Immanuel Kant filosofo tedesco fra i più importanti esponenti dell’illuminismo tedesco sia stato colpito da demenza e che per circa otto anni abbia convissuto con la malattia di Alzheimer. Era il 1796. La storia parla di: “una prima fase della malattia con una insorgenza graduale, un decorso progressivo un comportamento anomalo, una seconda fase con in cui si manifestano sintomi neuro-psichiatrici come difficoltà nella concentrazione, deficit della memoria, disorientamento spazio-temporale, deficit di giudizio critico, confusione notturna, ossessioni, di seguito uno stadio neurologico con insorgenza d’affaticamento grave, disturbi nel camminare, afasia, aprassia e infine un ultimo periodo morboso con calo dell’appetito, cachessia, riposo forzato a letto”. Mi sono sempre molto emozionata nel leggere gli ultimi momenti di vita di quest’uomo che ha cercato con dignità e stile di andare oltre la sua stessa malattia e che sono raccontate da Thomas de Quincey in Gli ultimi giorni di Immanuel Kant nel 1854. “Rispose al mio saluto dicendo – “Buongiorno” – ma con voce flebile e tremula. Mi rallegrai di trovarlo cosciente e gli chiesi se mi riconoscesse – “Si” rispose e tendendo la mano mi toccò dolcemente la guancia” ().
Immanuel Kant morì di quella “senilis stultizia quae deliratio appellari solet” che il suo connazionale Alois Alzheimer (1864-1915), psichiatra di Monaco di Baviera farà conoscere per la prima volta nel 1906 nel corso del Congresso degli psichiatri tedeschi a Tubingen, illustrando la degenerazione dei neuroni cerebrali in una paziente di cinquantasette anni, Augusta D. che manifestava segni di una demenza progressiva che era riscontrabile attraverso la sua incapacità di instaurare relazioni con i familiari, deliri perché la signora credeva che le stavano accadendo cose che in realtà non erano vere e allucinazioni, Auguste sentiva le voci e vedeva cose che in realtà non esistevano. Ma fu solo dopo la morte di Auguste e solo dopo aver eseguito l’esame autoptico su parti prelevate dal suo cervello, che Alzheimer notò delle modificazioni atipiche del tessuto cerebrale.
Il neurologo tedesco al microscopio vide degli ammassi scuri nella zona della corteccia e nell’ippocampo ai quali successivamente diede il nome di placche amiloidi. Descrisse poi matasse aggrovigliate di fibre molto sottili (fibrille) che chiamò grovigli neurofibrillari. Di questo parlerò in seguito in maniera un po’ più approfondita. La scoperta di Alzheimer, che già all’epoca parlo di una “nuova forma di demenza” non venne tenuta molto il considerazione dal mondo scientifico di allora, che vedevano nel declino cognitivo una manifestazione normale nel processo dell’invecchiamento e le placche amiloidi come una sorta di corredo nel cervello dei pazienti anziani che vanno verso la naturale demenza. Ma quale sarebbe stata quindi la novità della scoperta di Alzheimer?
Nella storia della malattia di Alzheimer c’è un nome tutto italiano che di solito non viene mai tenuto in considerazione ed è quello dello psichiatra udinese Gaetano Perusini, assistente di Aloise Alzheimer, morto prematuramente nel 1915 nei pressi di Cormons, (comune in provincia di Gorizia nel Friuli Venezia Giulia), combattendo durante la Prima Guerra Mondiale. Ed è stato forse questo evento funesto che non diede a Perusini il giusto riconoscimento per le sue scoperte. Perusini infatti sempre sotto la guida di Alzheimer poté portare alla luce i casi di tre pazienti di 47, 63 e 67 anni con severa e rapida demenza e nel 1906 fu proprio Perusini a dire che la vera novità della scoperta di Alzheimer stava non tanto nelle placche amiloidi ma bensì nelle alterazioni delle neurofibrille. (I tre casi sono inseriti nel libro: Sugli aspetti clinici ed istologici di una particolare malattia psichica dell’età avanzata, finito di stampare nel 1910) ([3]). Il termine di malattia di Alzheimer fu definita nel 1910 da Emil Krepelin nell’ottava edizione del suo Manuale di Psichiatria per indicare un particolare gruppo di demenze senili con le caratteristiche alterazioni neuro-patologiche individuate e descritte da Alzheimer e Perusini e solo alla fine degli anni ’60 il dr Robert Katzman neurologo della Albert Einstein University e University of California San Diego “riconobbe l’Alzheimer come una malattia potenzialmente importante e di ampia diffusione” .
Quelli che sono i cambiamenti che avvengono nel cervello di una persona colpita da Alzheimer e ampiamente descritti nel 1906 dal neurologo tedesco prima e da Perusini dopo, sono stati compresi solo nel 1984 quando il dr. Glenner e il dr. Wong della University of California San Diego hanno stabilito che“ la comparsa di placche amiloidi e l’esistenza di una proteina chiamata amiloide beta peptide sono le caratteristiche fondamentali di un cervello che mostra segni di Alzheimer”. Dopo ben 78 anni in tutto il mondo si è iniziato a considerare l’Alzheimer come una nuova forma di demenza da dover capire, studiare e su cui fare prevenzione.
L’Alzheimer quindi è una malattia neurologica che consiste in un graduale impoverimento delle capacità intellettuali e in particolar modo della memoria. La diagnosi viene fatta su una scala di probabilità, poiché la certezza, come abbiamo visto, si potrà avere solo post-mortem con l’esame autoptico. Ma cosa avviene nel cervello della persona compita da Alzheimer? Se mettiamo due cervelli a confronto, uno sano ed uno colpito dalla malattia si nota subito che quello ammalato è più piccolo, perché nel cervello avviene quella che gli esperti chiamano “Atrofia”. Con il progredire della malattia avvengono cambiamenti continui nelle aree corticali e sottocorticali perché i neuroni cominciano a morire. Negli esami autoptici infatti si evidenzia il 30% di neuroni in meno e come sottolinea Lawrence J. Whalley (2012) “il morbo di Alzheimer è legato alla perdita di neuroni corticali e alla riduzione delle spine dendritiche e delle sinapsi dei neuroni superstiti”. Come ogni altro organo il cervello per fare il suo lavoro deve conservare un livello minimo di integrità funzionale. Ecco i passaggi della devastazione cerebrale che subisce una persona con Alzheimer. “Le aree cerebrali che inizialmente sembrano sviluppare le prime alterazioni sono le strutture mediali temporali, da qui i processi patologici si estendono gradualmente fino ad includere le aree associative della corteccia ed i nuclei sottocorticali, arrivando ad intaccare, negli stadi terminali, le strutture che regolano le funzioni motorie. Le alterazioni sono causate da lesioni degenerative dei neuroni (…) soprattutto di quelli che la corteccia riceve dalle strutture sottocorticali come acelticolina, noradrenalina ed L-DOPA (…). Il progressivo depauperamento della popolazione neuronale provoca l’atrofia del tessuto cerebrale, (soprattutto corticale) e la crescente diminuzione del dialogo interneuronale dando luogo a deficit iniziali della memoria episodica a cui segue un impoverimento delle abilità verbali, delle funzioni visuo-spaziali, dell’attenzione e delle funzioni esecutive o di controllo”.
L’insorgenza della malattia di Alzheimer è graduale e la sua progressione è molto lenta e addirittura come evidenzia Pasin: “Tale processo inizia molti anni prima della manifestazione dei primi sintomi clinici che compaiono quando vengono meno le capacità di riserva cerebrale, e i processi di compensazione neuronale non sono più sufficienti per mascherare il danno cognitivo” ([8]).
La ricerca fino ad oggi si è molto concentrata per individuare le cause che portano alla demenza e all’Alzheimer e lo sforzo maggiore fatto si è concentrato principalmente per cercare di capire il perché avviene l’accumulo di grosse quantità di proteine amiloide nel cervello.
In situazioni normali tale proteina, la amiloide infatti, che è composta da 40 amminoacidi viene eliminata dal cervello come avviene per qualsiasi materiale di scarto proprio perché riconosciuta dal sistema immunitario come estranea. L’amiloide che non viene eliminato e che si accumula nel cervello viene chiamata Beta Amiloide formato da 42 amminoacidi che ingolfa il cervello delle persone con Alzheimer. “Questa assomiglia ad un pezzo di garza fatta di fili collosi che si annodano con facilità: una volta arrotolata si se stessa non è semplice eliminarla o sbrogliarla”. E’ naturale che più placche si aggrovigliano nel cervello minore è il suo normale funzionamento.
Come sappiamo la novità degli studi di Alois Alzheimer non stava tanto nella scoperta delle placche amiloidi nel cervello quanto nella scoperta dei grovigli neurofibrillari. Su questo argomento oggi c’è una sorta di diatriba tra gli scienziati che affermano che la causa dell’Alzheimer è dovuta alla quantità di depositi di β-amiloidi e che sono detti “battisti” e tra coloro che ritengono responsabile l’accumulo di proteina –tau nei grovigli neurofibrillari e che sono chiamati “tauisti”. La proteina – tau è responsabile dell’eliminazione delle sostanze tossiche all’interno dei neuroni, quindi di β-amiloide e, se questo processo non avviene correttamente le cellule neuronali piano piano muoiono. “I grovigli neurofibrillari sono stati paragonati a fantasmi o a pietre tombali dei neuroni morti”.
Come abbiamo visto la degenerazione del cervello nei malati di Alzheimer è graduale, colpisce tutte le parti del cervello ma in maniera progressiva e questo produce quei comportamenti diversi che acquisiscono di solito le persone.
Whalley (2012) sottolinea come sia utile distinguere, ai fini descrittivi, tra lobi frontali, parietali, temporali e occipitali.
I lobi parietali sono spesso danneggiati nella malattia di Alzheimer. Il linguaggio è localizzato nella corteccia parietale e nella parte superiore dell’adiacente lobo temporale. Lesioni a carico di uno dei lobi parietali causano tipicamente difficoltà visuo-spaziali e topografiche. Quando è compromesso il lobo parietale dominante, compaiono deficit complessi del linguaggio tra cui dislessia e disgrafia. Anche il coordinamento motorio è disturbato. Lesioni a carico del lobo parietale non dominante disturbano la consapevolezza dello schema corporeo e della sua relazione con lo spazio esterno, questo può provocare disprassia nel vestirsi e spogliarsi e il mancato riconoscimento di visi familiari (compreso il proprio).
I sintomi che conseguono al danneggiamento dei lobi temporali riflettono le funzioni di quella zona: elaborazione dell’informazione uditiva e vestibolare, memoria (dell’ippocampo), funzioni motorie che riguardano la mimica, il mangiare e le risposte emotive al dolore e al piacere. La perdita di neuroni nel lobo temporale dominante può causare disturbi del linguaggio con problemi nella comprensione, incapacità di leggere e scrivere e difficoltà nella costruzione di oggetti comuni. Quando sono interessati entrambi i lobi temporali c’è una perdita di memoria devastante. Inoltre le lesioni temporali causano turbe persistenti nel temperamento e nel controllo degli impulsi aggressivi. Tutti i sintomi di lesioni dei lobi occipitali riguardano le funzioni visive, quindi incapacità di leggere, mantenendo magari la capacità di scrivere, mentre lesioni ai lobi frontali producono i segni più distintivi di cerebropatia focale. La perdita della loro funzione produce disinibizione e perdita del controllo sociale e morale, è disturbata anche la capacità di mantenere l’attenzione e portare a termine sequenze di attività finalizzate.
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